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Tutti i numeri della moda: più affari, più green, ma meno donne al comando. Sempre più stanieri proprietari dei brand italiani

1 Marzo 2022

di Raffaele Vitali

FERMO – Settimana della moda, Lineapelle, White e tra due settimane il Micam (12-15 marzo). Si passa dagli abiti alle scarpe senza mai dimenticare gli accessori, il mondo del fashion è in movimento e in continua crescita. A dirlo è lo studio di Mediobanca, un report dettagliato che ha analizzato le principali imprese del settore.

I maggiori player mondiali hanno segnato una crescita del giro d'affari del 32%. Il mercato europeo ha spinto meno (+25%), penalizzato dagli ancora limitati flussi turistici, mentre quello asiatico ha visto un'accelerazione sulla scia della Cina (+38% escludendo il Giappone) insieme con quello americano (+37%, trainato dagli Stati Uniti).

Studiando 70 multinazionali e 134 grandi aziende del comparto in Italia, il report indica una repentina ripresa a «V» con una crescita del fatturato a livello aggregato del +28%, il che permette alle multinazionali della moda di superare i livelli pre-crisi (+10%).

Nel 2021 le vendite online proseguono nella loro crescita (accelerata durante la pandemia: +60% nel 2020) con un +25%, raggiungendo oltre un quarto del giro d'affari complessivo (quota generalmente più elevata per i gruppi della moda statunitensi rispetto a quelli europei).

Nel 2020 i 70 maggiori player mondiali della moda (società con un giro d'affari superiore a 1 miliardo), hanno fatturato complessivamente 379 miliardi (-13,8% sul 2019 e +4,9% sul 2016), di cui il 55% generato dai gruppi europei e il 34% dai nordamericani. Il calo del 2020 ha fatto arretrare i ricavi delle multinazionali della moda di tre anni fino ai livelli del 2017.

Tecnicamente l’Italia, con sette big, è il Paese più rappresentato tra i primi 30, anche se è la Francia, con una quota del 38% del fatturato aggregato, ad aggiudicarsi il primato per giro d'affari. Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali c'è LVMH (44,7 miliardi). Seguono Nike (36,3mld), Inditex (20,4mld), che controlla Zara, la tedesca Adidas (19,8mld), la svedese H&M (18,6mld), la giapponese Fast Retailing (15,9mld), che detiene il brand UNIQLO, ed EssilorLuxottica (14,4mld) che è francese anche se ha come socio di riferimento Leonardo Del Vecchio.

Prima tra gli italiani Prada (2,4mld), al 38esimo posto in classifica. Allargando al made in Italy in generale, dopo anni di andamenti più che positivi, nel 2020 le grandi Aziende Moda Italia hanno subito un duro contraccolpo a causa della pandemia, registrando un giro d'affari totale di 49,8 miliardi, in contrazione del -22,8% sul 2019 e del -9,7% sul 2016.

Domina l’abbigliamento, che determina il 43,9% dei ricavi aggregati, seguito da pelli, cuoio e calzature (27,1%). Quanto al trend delle vendite nel 2019-2020, il tessile registra il calo maggiore (-34,6%), mentre la gioielleria il minore (-19,8%).

Ma che il made in Italy piaccia, lo dimostra la presenza di gruppi stranieri nella moda italiana: 59 delle 134 grandi Aziende Moda Italia hanno una proprietà straniera che controlla il 38,5% del fatturato aggregato (il 19,1% è francese, fra cui Kering con l'8,7% e LVMH con il 6,4%).

L'impatto della crisi è stato più evidente per le imprese a controllo italiano rispetto a quelle a controllo estero: sia in termini di ridimensionamento del giro d'affari (-23,3% vs -22,0%), sia in termini di contrazione della reddività (-6,5 punti percentuali contro -5 di ebit margin), pur rimanendo lievemente più profittevoli le prime (ebit margin all'1,9% contro 1,7%).

Dal report di Mediobanca in generale, oltre all'attenzione alla sostenibilità, emerge che le donne ai vertici sono più presenti nelle aziende francesi e statunitensi. Nel board delle 70 multinazionali mondiali, e le 134 grandi aziende italiane, della moda emerge che la presenza femminile cala all'aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al 64,3%, ma scende al 43,0% nei ruoli direttivi e al 32,7% a livello di Cda.

I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (37,9%) rispetto a quelli europei (32,5%). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi con una quota di donne presenti nei Cda pari al 41,7%. I gruppi italiani si fermano al 27,5%. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri.

Tornando al tema ambiente, diminuiscono i consumi idrici (da 350 m3 di acqua consumata per un milione di fatturato nel 2019 a 304 nel 2020), le emissioni di CO2 (da 1.528 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2019 a 1.512 nel 2020), i rifiuti prodotti (da 3,0 tonnellate per un milione di fatturato nel 2019 a 2,7 nel 2020) e aumenta il ricorso all'energia elettrica rinnovabile (dal 49,9% nel 2019 al 57,6% nel 2020, era al 42,6% nel 2018).

Relativamente alla supply chain, dai bilanci di sostenibilità emerge che i fornitori dei maggiori player mondiali del fashion sono localizzati per il 61% in Asia, per il 28% in Europa e per l'8% in Nord America, con punte di oltre il 90% in Asia per il fast fashion e l'abbigliamento e calzature sportive.

Infine, un segnale inequivocabile dell'eccellenza della filiera italiana: mediamente oltre un quarto dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, con picchi di oltre l'80% nella fascia alta del mercato.

Raffaele Vitali - via Leopardi 10 - 61121 Pesaro (PU) - Cod.Fisc VTLRFL77B02L500Y - Testata giornalistica, aut. Trib.Fermo n.04/2010 del 05/08/2010
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