di Francesca Pasquali
FERMO - Gli occhi che bruciano e i brividi. Poi la febbre. Il tampone positivo e l’isolamento in camera, vicina eppure lontana dal resto della famiglia. Come ha contratto il Covid, Sara Serena, di preciso, non lo sa. Quasi sicuramente in pronto soccorso, al “Murri”, dove lavora come infermiera, e dove a metà gennaio i sanitari contagiati erano una ventina.
IN PRIMA LINEA
«Quando ho avuto i primi sintomi – racconta –, ero sul divano con le mie figlie a guardare un film e non gli ho dato peso. Avevo fatto il turno di notte e pensavo fosse stanchezza. Poi è arrivata la febbre, per fortuna lieve, e il mal di schiena. Il caffè aveva lo stesso sapore dell’acqua, ma gusto e olfatto li ho riacquistati quasi subito».
L’infermiera di Rapagnano adesso è guarita ed è tornata al lavoro. Quando ripensa ai giorni in casa separata dalle figlie da una porta, la voce le trema. «Mi è crollato il mondo addosso. Mi sono subito isolata. Le mie figlie l’hanno presa male. La più piccola si è sentita in colpa. Poi, tra le parole del padre e le mie rassicurazioni in videochiamata, è riuscita a gestire la situazione».
Il Covid è quasi sicura di averlo preso in pronto soccorso. Quando, però, non l’ha capito. «È un mistero – dice –, perché erano due settimane che non gestivo pazienti Covid». Pratiche ormai collaudate da un anno di emergenza, eppure non infallibili. «Ho ripensato a quali errori posso aver commesso. Abbiamo dispositivi sempre più perfezionati e percorsi separati di accesso e uscita. Anche nella zona pulita, adottiamo tutti i dispositivi di protezione ed è mia premura fare una doccia prima di uscire dal reparto, perché il virus sa nascondersi».
Adesso è di nuovo operativa, ma la paura non se n'è andata con il Covid. «Mi sento disarmata pur avendo una corazza – spiega –, ma credo fermamente in questa professione. Tirarsi indietro significa darla vinta al virus. Io mi rimetto in gioco».
DONNE, LAVORO E INFORTUNI
L’infermiera del pronto soccorso del “Murri” è una dei 3.500 operatori sanitari che si sono contagiati dall’inizio della pandemia, il 70% dei quali donne. «Donne al fronte», le chiama il direttore dell’Area vasta 4, Licio Livini, «che, con la loro professionalità, sono diventate un punto di riferimento per la nostra organizzazione e che riescono a garantire il lavoro, coniugandolo con la vita di famiglia». Sono loro che, più degli uomini, si sono ammalate sul lavoro.
Delle 222 denunce per infortuni da Covid presentate l’anno scorso nel Fermano, 144 erano proprio di donne. Dati forniti dall’Anmil di Fermo in occasione dell’8 marzo. Un quadro che non migliora considerando il calo degli infortuni (1.213 contro 1.450, tra uomini e donne, -16.3%) e delle malattie professionali (669 contro 797, sempre tra uomini e donne, -16,1%) denunciati l'anno scorso rispetto al 2019. Perché frutto della perdita di occupazione dovuta alla pandemia. In controtendenza il numero dei decessi: 6 l’anno scorso, contro 5 nel 2019, di cui uno conseguenza del Covid. Che si è accanito di più sulla fascia di età tra i 50 e i 64 anni (90 contagi sul posto di lavoro). 77 i lavoratori tra 35 e 49 anni che si sono ammalati, 49 quelli tra 18 e 14, 6 quelli con più di 64 anni.