di Raffaele Vitali
FIRENZE / MONTEGRANARO - “Abbiamo bisogno di manodopera. Non a caso ho aderito al corso promosso da Regione, via Confindustria Fermo, per la formazione di nuove orlatrici. Il settore è in difficoltà, i calzaturieri devono capire che bisogna agire ora. La speranza ora è che le persone aderiscano, perché non è facile, nonostante ci siano almeno due anni di lavoro garantito”. Stefano Medori insieme con il fratello Simone guida il calzaturificio Shoto, fascia alta nel settore uomo categoria cuoio e vintage. Un’azienda che non poteva mancare al Pitti.
Medori, partiamo dal lavoro. C’è per tutti?
È ripartito. Ognuno ha la sua storia, ma il trend dal 2021 è positivo. Il problema è che in prospettiva non ci sarà la manodopera. E se non hai personale, non cresci. Che non significa espandersi, ma poter mostrare il bello che si fa. Parlo del mio prodotto di fascia medio alta”.
Come reagire?
“Noi nel distretto dobbiamo mirare ala qualità e lasciar perdere il prezzo. Se le aziende andranno verso la qualità, il futuro è garantito. Ma di certo bisogna fare un paio di passi indietro, riducendo le dimensioni. O se si hanno tante persone, bisogna elevarne la qualità”.
E i piccoli come faranno?
“Unirsi la vedo difficile. I consorzi sono falliti da anni. Questa è la verità. Il calzaturiero non ci crede, non gli piace dover andare dentro le collettive all’estero e quindi si va da soli, il che significa perdere energie e, se non si è organizzati, ci si fa male. Il mercato non accetta più gli avventurieri. Servono qualità e rete commerciale. Se uno no ce l’ha, ben venga il consorzio. Ma nel nostro territorio ognuno tende ad andare per conto suo. E non è questione di adesso, perché vent’anni fa si parlava di un marchio unico per i piccoli, ma nessuno lo ha mai davvero pensato. Ci fermiamo alle parole”.
Poi però si diventa terzisti.
“Questo è un altro aspetto. Non collaboriamo tra noi, ma facciamo scarpe a cinquanta euro per le griffe svendendo magari il lavoro di una vita. Ha senso? Dobbiamo ritrovare il senso di comunità, perché il prodotto del made in Marche non ha eguali”.
Medori, come vede il futuro di Shoto?
“Confermarsi sui mercati, principalmente l’Europa che è il core business. Puntiamo su Giappone Corea, che è un paese molto dinamico. E abbiamo iniziato a guardare l’America, ma è instabile e va affrontata bene. Il che significa non accontentarsi di fiere dove ci lasciano spazi, penso a Chicago che non funziona. L’Ice, che è fondamentale, deve imporsi sul mercato internazionale e portare le aziende dove davvero serve, a cominciare d New York”.
Guardando la collezione qui al Pitti, c’è il cuoio, ma anche tante sneaker?
“Il nostro core business è il vintage. Ma sull’estivo portiamo una scarpa sportiva particolare, con lavorazione a sacchetto e tutta lavorata a mano. È la terza stagione, il cliente apprezza. È una vera scarpa con concetto sneakers, con un prezzo da fascia alta. La usa il cliente che ama il cuoio ma vorrebbe una scarpa sportiva”.
Ma non è tornato di moda il cuoio?
“Il cuoio ripartirà il prossimo inverno. Ma non in Italia dove la sneaker è ancora dominante. L’Europa ci riprova, ma peer scarpe sopra i 400 euro. Lo straniero che compra made in Italy cerca il quid in più ed ecco che il cuoio piace”.
Voi dove producete?
“Tutto in azienda, tolta l’orlatura. Abbiamo 14 dipendenti, un’ottantina di scarpe al giorno. Se trovassi l’orlatrice, saremmo almeno15. Una forza lavoro che mi permette di fare il mio al meglio, ma non di lavorare per altri. Ho avuto richieste, ma ho fatto una scelta”.
Lo stile delle sneakers come è pensato?
“Scarpa molto leggera e morbida, flessibile. Si parte da una scarpa bianca che poi viene colorata a mano. La scarpa viene immersa nella tinta e ognuna è diversa dall’altra alla fine della lavorazione. Chiaramente la scarpa viene spiegata al cliente, se ci crede le vendiamo. Chi compra noi sa che ha un prodotto che a livello industriale è impossibile realizzare. Si compra la lavorazione. Anzi si comprerà dalla stagione estiva 2024”.
l’Italia è un mercato?
“Per no vale il 10%. Ed è uno zoccolo che vende, nonostante noi non siamo un brand. L’export è più semplice. Il mercato italiano è molto fashion victim e no coglie, non vuol capire la qualità. Il tedesco chiede, si informa, l’italiano spesso si ferma al prezzo e se il venditore non è bravo a far capire il senso del vintage è complicato”.