di Raffaele VItali
PONZANO DI FERMO – “Un marchigiano, non pesarese o anconetano, deve soffrire il triplo per emergere. La provincia ti uccide come pregiudizio da parte degli altri. Se sei romano o milanese, già parti avvantaggiato il marchigiano è marchiato, come se fossimo dei contadini. E invece, affermarsi è un vero orgoglio. Io vivo a Fermo, non a Roma e ne vado fiero”. Giorgio Montanini si racconta a Ponzano di Fermo, a due passi da quella Torchiaro che l’ha visto protagonista al cinema.
Palasport pieno per l’attore cresciuto sotto il Girfalco, stimolato con eleganza dalla giornalista Gaia Capponi. “Una serata che conferma la scelta vincente che abbiamo fatto entrando dentro il Festival Storie diretto da Manu Latini. Per il primo anno partecipiamo, visto che era inizialmente dedicato ai comuni del cratere, ma ora si è aperto ad altri borghi. Noi non abbiamo preso l’occasione e abbiamo fatto bene. Possiamo solo dire grazie a Storie, che aiuta ogni territorio a restare vivo. Prima Buffa, oggi Montanini, Ponzano ha risposto oltre ogni aspettativa” introduce il sindaco Diego Mandolesi. Che con Montanini ha condiviso gli esordi, era spesso tra il pubblico quando per l’attore il palcoscenico era nella palestra di santa Petronilla.
Dopo il saluto del sindaco, al suo fianco anche il colega di Monte Giberto, entra in scena il ‘re della stand up comedy’, come lo presenta Gaia Capponi, la giornalista e amica chiamata a far uscire il lato nascosto dell’attore. “Nato comico, ma prestato al cinema, fermano doc a cui, dice lui, manca solo l’Oscar”.
Lungo applauso, sorriso contagioso, Montanini si sente a casa. Del resto la sua serata è iniziata proprio a Torchiaro, dove il sindaco gli aveva organizzato un super aperitivo a base di vino pizzette e Varnelli. “Poi – scherza - abbiamo preso l’aereo e siamo arrivati a Ponzano per lo spettacolo”.
LA PROVINCIA
Filo conduttore del dialogo sono le foto, fino a che ce ne sono, poi si va a braccio, rischiando di risvegliare il lato ‘pulp’ dell’attore. Ma anche in questo Montanini è cambiato, come racconterà in chiusura. È un viaggio al contrario che, Castelrotto a parte, film a parte, inizia dal film presentato da poco al Festival del cinema di Venezia. “La mia terza volta, devo dire che da marchigiano percorrere il red carpet è davvero figo”.
La sua lode alla provincia è continua: “Io porto l’orgoglio della mia terra. Per i comici arrivare da Campania o Lazio, grazie al dialetto, tutto è più facile. Io ho iniziato parlando in marchigiano e mi chiedevano di parlare in italiano perché il fermano non si capiva. Passo passo, invece, sono emerso. Del resto – prosegue Montanini - se non tutti devono fare le scarpe, non tutti i napoletani devono fare i comici”.
Tanti i film e le foto che scorrono lo dimostrano. ‘Grazie ragazzi’ di Albanese è stato uno dei capolavori del 2024, tanto che il dizionario del cinema l’ha scelto come scatto iconico. “Ha incassato tantissimo, ripercorre una storia vera, per tre mesi ho dato tutto”. C’è stato anche il film hollywoodiano con Scamarcio.
LA STAND UP COMEDY
Il primo amore è però la stand up comedy, “una forma di comicità che in Italia è arrivata quindici anni fa mentre in America vive da cinquanta”. Un esempio viene dal video di un suo spettacolo dove parlava dei ‘negri’. “Una parola che non va usata, diventi razzista, però poi gli dici nero e lo paghi un euro per raccogliere i pomodori e allora va bene”. Un esempio per far capire il senso di una comicità pungente, diretta e cattiva che dice verità, l’alternativa al cabaret.
“Io sono stato il pazzo che mentre dominava in Italia Zelig ha deciso di portare la stand up comedy. Non so se Gesù cristo è nato da una vergine, di certo io ho portato la stand up comedy in Italia. Questo è un dato oggettivo, in tv con Nemico Pubblico, poi anche nelle sagre l’hanno apprezzata, non chiamando solo i volti di Zelig”.
Si definisce “l’uomo che ha fatto la rivoluzione nella comicità”. All’inizio è piaciuto a tal punto che è arrivato anche a Ballarò, dopo che Crozza e Floris lasciarono la Rai per La7, con la conduzione di Giannini. Una storia non facile la sua con la televisione. “Chiamano come primo comico Paolo Rossi, ma non funziona. Viene chiamato Roberto Benigni per la seconda copertina. E poi chiamano me e mi confermano. Il problema è che la trasmissione era in diretta, mi danno un po’ di direttive su quello che dovevo dire. Invece vado in diretta e insulto tutti, in primis Salvini e Belpietro. Ridevano tutti, ma poi mi cacciano e chiude la copertina di Ballarò. Dopo di me nessuno mai, Crozza dieci anni, io tre puntate. E questa è storia, non un’opinione”.
Supera indenne la direzione, “disastrosa” di Daria Bignardi e approda a Rai 2. “Avevo un pubblico giovanissimo che mi seguiva e così passo a Nemo insieme con Lucci. Durai dieci puntate, poi mi hanno cacciato e mi hanno però pagato”. A quel punto un contratto da 24 puntate per ‘Giudizio universale’, ma è stato cacciato dopo tre puntate. “Mi chiamano a Diritto e Rovescio, solo che eravamo anche lì in diretta e mi cacciano dopo una puntata”.
IL CINEMA
Ed è qui che è arrivato il cinema. “Mi sento, anzi sono un artista. Non me lo deve dire qualcuno, lo faccio da una vita. E ho una mia idea. Per me è impossibile venire meno ai miei principi. Faccio questo lavoro per una esigenza viscerale, devo dire quello che penso. Se trovo qualcuno in tv che media quello che penso con l’esigenza editoriale, allora posso fare televisione altrimenti mi restano i live. Poi ho fatto nove film in tre anni”.
Rivendica una peculiarità: “Io non ho autori, faccio da solo. Per me un artista che ha gli autori è ridicolo, come si fa a dire cose che ti dicono altri. Questo, caro sindaco, lo fanno i politici. Oggi gli artisti seguono gli algoritmi, l’artista così è morto. Vive di autotune per la musica, e segue la policy di un social. Oggi gli artisti seguono solo il politicamente corretto, invece un artista deve scardinare la realtà. Sono stato denunciato perché ho bestemmiato sul palco, poi Salvini si metteva la felpa con scritto ‘ruspa’ e la portava in piazza per dire che bisogna buttare giù i campi rom. Per me quello è più violento di una parolaccia. Bisognerebbe essere più attenti alle parole dei politici e meno dei comici. Il politico va vivisezionato e deve rispondere, mentre il comico deve poter dire quello che vuole” chiarisce Giorgio Montanini.
Ogni tanto nomina Marcorè, un po’ in maniera provocatoria, un po’ per confermare che è un livello alto, un po’ perché serve per tenere alta l’attenzione dei trecento spettatori, un po’ perché è quanto di più lontano da lui.
LA DISSACRAZIONE
“Nei miei spettacoli ho il piacere di dissacrare tutto ciò che per voi è intoccabile: padre Pio, il padre eterno, le donne, gli omosessuali e i negri, la sacralità della famiglia. A me diverte vedere la gente che frigge sulla sedia, che si arrabbia per quello che dici è un attestato di stima. Secondo il pubblico un comico gode quando la gente ride. La risata è l’ossigeno che respiri, ma il comico gode veramente, la sua droga, è quello che si incazza. Quando tutti ridono il comico respira, ma gode quando uno si arrabbia e li ti dici ‘sto facendo bene il mio lavoro’. Quando uno si alza e mi urla ‘voglio che muori’ posso dirmi che non sono Bruno Vespa”. Applauso, inevitabile.
COMA, DROGA E RINASCITA
Prima del momento ‘intimo’ dedicato ai 45 giorni di coma dove “io non ho visto niente. Non un tunnel, manco uno spioncino. Mi avevano dato l’estrema unzione, quindi sono io che mi sono avvicinato di più a Dio. Non si è fatto vedere e quindi sono tornato indietro e sono qui”, un profondo passaggio sul mondo della droga. Montanini ne è stato un consumatore per cinque anni, “un periodo segnato da grandi perdite: mio padre, mia madre, mio fratello, un amico e anche la pandemia”.
Sulla droga manda un messaggio chiaro: “Sbagliamo a raccontarla. Dobbiamo essere onesti e dire che la droga è bella, ma ti uccide. Se continuiamo a raccontarla ai giovani come una cosa terribile, poi quando la provano e si rendono conto che è meravigliosa non smettono. E invece bisogna far capire che è incredibile quando la provi, ma è mortale, è terribile. Solo così la si può tenere lontana, non come fanno padri bigotti e donne frustrate. Io sono arrivato a 160 chili e sono entrato in coma mentre ero sul set, non si deve ripetere”.
È a quel punto, quando ha toccato il fondo “e mi sentivo il diavolo”, che ha trovato la strada per risalire. Che ha avuto il suo apice professionale nei film, quello personale nel matrimonio. “Sono fortunato, posso ancora parlare. Potevo morire come successo a tanti. Io non sono meglio, sono vivo per pura fortuna e quanto apprezzi al vita e ora mi sto sacrificando per tornare in forma, è la cosa più stupida, sono dovuto arrivare quasi a morire per capire quanto fosse bello vivere. Mi sono sposato a 45 anni, pensate quanto sono scemo. Sono riuscito a invertire la rotta, la rabbia repressa, dovuta al malessere, l’ho superata. Non aspettiamo che uno ci sbatta la faccia, perché non è detto che si rialzi. Se c’è una cosa che ho capito - conclude Montanini - è che una volta un abbraccio ti salva la vita”.