di Raffaele Vitali
FIRENZE – Il Pitti Uomo sa sempre stupire. Fin dal suo ingresso che quest’anno è stato brandizzato dai piumini Husky che hanno trasformato in una enorme piscina piena di palle nere, in cui immergersi liberamente, la hall del salone più fashion d’Italia. Una volta superato il nero illuminato da led brillanti, si entra nei padiglioni. E subito ci si imbatte in un personaggio scoppiettante: Martin Johnston. Uno degli 825 brand che espongono, di cui il 45% estero.
L’imprenditore arriva da Amsterdam, ma è per tanti aspetti un marchigiano d’adozione. Alcuni dei modelli della sua collezione di scarpe, infatti, nascono a Fermo. Crafted Society è il suo brand, nato in Olanda e ormai parte del mondo. Soprattutto degli Stati Uniti. “Siamo partiti sei anni fa e il mercato ci ha subito accolti. Il pre pandemia è andato benissimo, poi come tutti un periodo difficile e ora siamo tornati a quella brillantezza che il made in Italy garantisce in ogni angolo del pianeta” racconta.
La scelta, dopo aver ascoltato i consigli della pelletteria di Tolentino da cui si servono, è caduta per la produzione sul calzaturificio Mirage di Fermo. Johnston non è come uno dei tanti che produce esternamente e non lo dice, lui ha fatto una scelta narrativa precisa.
Anche di immagine, visto che grandi fotografie con il volto di Dante, uno dei titolari, e di altri produttori troneggiano nello stand. “E lo stesso sistema – prosegue – lo abbiamo replicato nel nostro store di Amsterdam. Chi entra si incuriosisce e fa domande”. C’è anche chi, come farebbero in tanti, ha semplicemente chiesto: ma sono foto per abbellire o sono persone vere? “E’ anche in quel momento che ho capito di aver fatto la scelta giusta. Raccontare Fermo e le sue aziende è un valore aggiunto. E lo è con i cappelli, che vendiamo e che ci produce Marco Sorbatti di Montappone”. Che è protagonista di un’altra grande fotografia.
Quello che Martin fa capire con semplicità è perché in America lui funziona: “Amano la qualità. Non si fermano al brand (come spesso dice chi non riesce a entrare nel mercato, ndr) ma guardano al prodotto. E poi, ribadisco, piace lo storytelling”. Che va fatto bene, come la scarpa.
“Noi siamo caratterizzati da alcune scelte di finissaggio. Dalla cucitura sul tallone al fatto che la pelle tagliata si ritoccata a mano con il colore per non lasciare nessun dettaglio trascurato. E poi c’è il loghetto, una forbice, in metallo sulla linguetta che è molto accurata e imbottita per renderla più confortevole”. La sua è a ‘dressing sneakers’. Ha subito puntato su questo modello e i buyer hanno apprezzato: “Un modello unisex, ormai non ha senso diversificare per un certo tipo di scarpa. Noi produciamo dal 36 al 46”.
Scarpe protagonista negli Usa, in crescita in Giappone e in molte capitali europee. “Siamo entrati in un nuovo concept store a Graz in Austria e i clienti sono rimasti estasiati. Il segreto è sempre lo stesso: far capire ogni dettaglio della scarpa. Sul nostro sito – spiega – si trovano tutte le caratteristiche, di ogni singolo pezzo: dalla pelle ai lacci, dalle suole alle scatole. Il made in Marche, e per alcune cose il made in Italy, è così veicolato al meglio”.
Il Pitti per lui è un ulteriore momento di incontro con il mondo. “Mia moglie Lise disegna le scarpe, poi gli artigiani le rendono vere. Il loro nome è stampato sulla soletta. Una squadra che funziona, come il modello di comunicazione che oggi diversi brand stanno riprendendo. Buon segno, non abbiamo sbagliato strada” conclude sorridendo, mentre si gira e racconta la storia di Dante.
@raffaelevitali
