SERVIGLIANO – “Ottanta anni fa si apriva il cancello del campo di concentramento di Aushwitz una giornata che ci vede come Casa delle Memoria in prima fila da vent’anni. Raccontiamo storie di chi da qui partì, che qui si oppose e aiutò chi era in difficoltà” sottolinea il presindete dell’associazione, il regista Giordano Viozzi.
Non è voluto mancare il prefetto di Fermo, Edoardo D’Alascio, che davanti ha due scolaresche: il liceo artistico Cantalamessa di Macerata, impegnato in progetto sulla memoria con Viozzi, e una classe delle Medie dell’Isc di Falerone. Poi le associazioni dei reduci, i politici e i parenti degli Imi.
Il sindaco di Servigliano Marco Rotoni indossa la fascia: “Qui c’è la nostra comunità, istituzioni civili, religiose e scolastiche che insieme cercano di ricostruire la coscienza di comunità. Servigliano vuole essere un luogo che condiziona positivamente la crescita di tutti. Farlo insieme, usando al meglio la Casa della Memoria, è possibile”.
Una conoscenza critica, serena che aiuta a cambiare il modo di raccontare. “Oggi aggiungiamo un ulteriore spunto di riflessione, quello di avere i comportamenti etici di chi ci ha preceduto, di chi oggi ci spinge a un comportamento attivo, del fare per gli altri. E farlo in maniera serena e connessa, ma mai come oggi è importante essere vicini e condividere principi, valori e comportamenti quotidiani. Perché domani qualcuno di voi sarà al mio posto, sarà in divisa, ricoprirà cariche politiche”.
Ascoltano Ciarpella, Ortenzi e Calcinaro, i tre dei sindaci presenti, insieme con la senatrice Elena Leonardi e i consiglieri regionali Marcozzi e Marinangeli. “Siamo chiamati a essere all’altezza dei valori” chiosa Rotoni.
Tre i deportati nei campi di lavoro che vengono ricordati: Armando Luzi, Fiore Mancini e Sesto Ramadori. Sul significato del 27 gennaio entra Paolo Giunta La Spada, direttore scientifico della Casa della Memoria: “Siamo una bella comunità e la comunità non ha sempre il posto che qui gli viene dato. La Giornata della Memoria non ricorda solo la persecuzione degli ebrei fino alla deportazione e allo sterminio, ricorda anche i deportati per altre ragioni: gli antifascisti, 24mila morti a Birkenau, e chi si opponeva perché aveva un orientamento sessuale o religioso differente da quello previsto. E poi c’erano gli asociali, chi si rifiutava di partecipare alle adunate e che chiedevano solo di poter pensare da soli. Un giorno per parlare dei ‘giusti’, chi si oppose e aiutò ebrei, antifascisti e non solo”.
In questo quadro entrano gli Imi, gli internati militari italiani. “L’Italia non era ancora libera dal fascismo. Prima il 10 luglio, poi il 25 luglio e la richiesta del re di fare un passo indietro con Badoglio che certa di trattare la resa per 45 giorni, ma non prende una posizione e non cancella le leggi razziali. Il Paese si ritrova nel caos, con due governi, uno a Brindisi e uno a Salò. Il mancato riconoscimento del governo regio dei tedeschi, trasforma i soldati in traditori.
La responsabilità di quella deportazione non fu quindi dei tedeschi, ma di un’Italia e di una gran schiera di italiani che continuò a collaborare con la Germania nazista, che aveva occupato la patria, e con il regime fascista di Salò, il suo alleato principale. La tesi del tradimento degli italiani ancora oggi viene praticata nei circoli fascisti. Quindi la conoscenza storica ci deve permettere di essere comunità che vive nella concordia e con spirito di pacificazione nazionale, ma questo si può fare e va fatto senza perdere la memoria delle responsabilità, del ruolo che le ideologie hanno” prosegue La Spada.
“Fascismo e nazismo – prosegue – hanno come base l’idea della divisione in razze. Tutto questo è nelle fonti della storia, nelle stampe dei prodotti dal fascismo. Se la riflessione non diventa conoscenza storica, ci prendiamo in giro. Si inneggia a colonne di esseri umani in catene (il riferimento è ai messicani ‘deportati’ da Trump come primo atto da presidente, ndr) e questo deve farci preoccupare. La civiltà umana deve riprendersi il suo ruolo di ricerca della pace, dell’impegno per il lavoro, della democrazia e della libertà”.
È il momento del prefetto Edoardo D’Alascio che va ben oltre il saluto e regala ai giovani una lezione di educazione civica: “Penso a 80 anni fa, quando le truppe sovietiche entravano ad Aushwitz. Quel cancello in cui è scritto ‘il lavoro rende liberi’ è diventato un simbolo in un luogo in cui invece il lavoro era schiavitù. Quando i russi videro quanto fatto dai nazisti, aiutati anche dai fascisti, nella persecuzione della razza, hanno capito che lì un uomo era diventato schiavo di un altro. La memoria è la memoria, ma va praticata ogni giorno, da noi che rappresentiamo le istituzioni e da ogni cittadino e in particolare dai giovani. Rispettate gli altri, il buco nero dell’umanità sarà sempre presente se non ci impegneremo tutti”.
Il quadro internazionale non aiuta: “Anche oggi viviamo momenti con guerre, rapporti di sopraffazione su minoranze, anche in Europa: questo è un Aushwitz ripetuto. Non dobbiamo consentirlo, voi dovete farlo come nuove generazioni. Il futuro è nelle vostre mani. Tutto parte dal rispetto della dignità della vostra persona, non credete a forme di sopraffazione, come una baby gang o le droghe. Lottate ogni giorno con voi stessi e con i vostri amici. Questa è anche la memoria, superare la schiavitù”.
Il pensiero va poi ai familiari degli internati, che furono 650mila in Italia, gli uomini che fecero la resistenza. “Una storia particolare di italiani senza patria, persone che hanno saputo dire di NO mettendo a rischio la loro vita, ma non la dignità” ribadisce con tono fermo.
Ogni anno il Presidente della Repubblica individua e riconosce i meritevoli. Nel Fermano sono tre. Il primo è Sesto Ramadori. A ritirare la medaglia è il figlio Luigino. “Una medaglia che condivido con la famiglia, esordisce il figlio. Partì da casa a giugno 1941, fu poi trasferito in Grecia nel dicembre del 1942 e nel settembre del 1493 fatto prigioniero. Fu liberato nell’ottobre nel 1945. Ci raccontò storie di incredibile crudeltà, mi preme ricordare i suoi sacrifici: oggi non deve essere solo un giorno di passaggio, ma il momento che fissa dei momenti comuni da ricordare sempre più spesso con il valore di chi ci ha preceduto” le sue parole.
La seconda medaglia la ritira Alvaro Luzi, il fratello resta in platea, in memoria di Armando Luzi deportato il 9 settembre, liberato dopo due anni, rientrò a casa l’8 maggio del 1945 (video).
Infine Fiore Mancini. “Mio padre ha trasmesso a me l’amor di patria. E il rispetto delle persone e della propria volontà, di quello che ognuno di noi pensa e vive. Mi ha insegnato il rispetto per la vita che ha visto calpestata, spesso e volentieri. I racconti erano pieni di amici visti tra i cumuli di cadaveri. E quelle scorze di patate che raccoglievano per cercare di vivere. Tornò a casa che pesava 38 chili. Non aggiungo altro”.
Parole che riportano alla mente del prefetto i racconti del nonno, a sua volta internato, che visse con le bucce di patate come Luzi e gli altri, che cercava di sopravvivere suonando, da direttore d’orchestra che era. Si chiude così la cerimonia a teatro, con un saluto a Rossano Corradetti, uno degli uomini più impegnati nel riconoscimento dell’Imi e del loro valore.
Raffaele Vitali