di Raffaele Vitali
FERMO – “Non è mai troppo presto per parlare di violenza contro le donne e di come si possono cambiare le cose”. Questo il messaggio che esce dal carcere di Fermo. Perché uguaglianza e diritti si costruiscono anche dove la libertà viene meno.
La prefettura di Fermo ha voluto con forza questo incontro per celebrare il 25 novembre e riempirlo di significati: “Abbiamo scelto questo luogo per mandare un segnale al territorio, per far comprendere che le istituzioni non solo ci sono, ma sono presenti per una giornata fondamentale, con un significato differente dall’8 marzo, ma che – sottolinea la vicaria del prefetto, Alessandra de Notaristefani di Vastogirardi - ricalca lo stesso problema: l’assenza di rispetto”.
Scegliere di dare voce anche alle donne del carcere, ai detenuti è la volontà del prefetto D’Alasio. Perché anche se non ci sono detenute, il carcere di Fermo è molto femminile, con la sua direttrice e la comandante della Penitenziaria, e con le tante donne che vengono a visitare i detenuti.
“Con la rete antiviolenza condividiamo esperienze e pianifichiamo azioni, che dureranno per mesi” prosegue la vicaria. Che ha sul tavolo i dati del centro antiviolenza che ricorda che ogni anno 50 nuove donne si rivolgono per chiedere aiuto, vittime di violenza che è anche psicologica ed economica.
“Dobbiamo continuare a farci sentire”. E la Provincia in questo è in prima linea, avendo un presidente molto sensibile come Michele Ortenzi: “Una politica di sensibilizzazione è quella che perseguiamo. Le iniziative però non bastano e ogni volta che ci riuniamo partiamo dai numeri, che fotografano una realtà che deve migliorare. Sono aumentate le segnalazioni, il che significa anche maggior consapevolezza degli strumenti. Prevenzione e certezza della pena sono due aspetti cruciali. Prevenzione significa sensibilizzare, fare attività e uscire anche da amori tossici promuovendo il rispetto”.
Un simbolo diventa la panchina rossa, dipinta dai detenuti e donata dal Comune di Fermo: “Sono un po’ preoccupato, le cronache nazionali sono piene di femminicidi. Penso all’impegno delle forze dell’ordine (in sala questore e comandanti di Carabinieri, Polizia, Capitaneria e Vigili del fuoco), penso all’aumento di strumenti per intervenire, ma penso anche al messaggio che arriva ai ragazzi attraverso la musica, la trap principalmente, che ancora parla di mercificazione della donna. Un messaggio devastante, un ritorno alla donna oggetto. E un oggetto – ribadisce il sindaco Paolo Calcinaro - vale meno di una vita. Dobbiamo evitare che i ragazzi crescano in mezzo a questa melma, altrimenti il nostro lavoro di sensibilizzazione perderà. Dobbiamo cambiare la cultura del Paese, che si conferma strabico”.
Non solo una panchina come simbolo, perché i detenuti hanno dato un nuovo volto anche alla sala colloqui. L’artista Letizia Ciccarelli l’ha poi resa colorata, andando oltre il bianco e nero del carcere. Un quadro ora domina la sala in cui si incontrano figli, mogli e parenti. Marina Guzzini, presidente dell’associazione avvocati di famiglia e minori (Aiaf), ha patrocinato l’iniziativa: “Mi rivolgo ai tanti studenti collegati, perché per arrivare a quello che auspichiamo, l’eliminazione della ricorrenza, dobbiamo partire dalle scuole primarie. È lì che si educa al rispetto dell’essere umano e delle donne. Dobbiamo lavorare sul controllo delle emozioni. Noi abbiamo detto subito sì alla chiamata della direttrice Stoico e della prefettura patrocinando l’opera realizzata. Chi entra qui vede nero, il dipinto vuole dare un messaggio positivo, far capire che anche dalla peggior situazione si può uscire”.
Il murales rappresenta un cielo plumbeo, con un albero della vita diviso a metà, con un lato triste, con poche foglie e colori scuri, e l’altro lato che fiorisce, dal cielo esce l’azzurro e il paesaggio diventa aperto verso il futuro. “In questo contesto c’è una panchina sotto l’albero in cui siede una donna che ci dà un senso di movimento, ci fa immaginare il suo camino da un lato all’altro”.
Positività quindi è quella che si vuole veicolare ai giovani, centinaia quelli collegati dai banchi di scuola, anche grazie alle parole stesse dei detenuti. Che ci mettono la faccia, mostrandosi nella loro fragilità ma anche determinazione nel percorso di miglioramento. In questo supportati dalla direttrice Serena Stoico, che dopo tanti ‘grazie’ dovuti e necessari entra nel cuore della giornata che ha permesso di aprire le porte del carcere: “Il 16 ottobre mi ha chiamato il prefetto D’Alascio peer convocarmi per un incontro visto che non aveva mai preso parte alla rete Antiviolenza. Da estromessi a luogo che ospita la principale delle tante iniziative il passo è stato breve, il Prefetto aveva raggiunto il suo obiettivo. Da qui partono spunti di riflessione. Due le tematiche. La prima è al presenza di tante istituzioni, perché noi lavoriamo per il reinserimento dl detenuti e non lo può fare solo il carcere. È il territorio a diventare parte del percorso”.
I diritti che non sono incompatibili con la detenzione devono essere garantiti dentro le mura, la Corte costituzionale parla ‘ di prezioso residuo di libertà’ da tutelare. “Oggi grazie a questa visione lungimirante del Prefetto diamo una opportunità di riscatto ai detenuti che dipingendo la panchina imbancando la sala colloqui, organizzando la palestra che ci ospita, hanno partecipato alla vita sociale del paese. La seconda tematica è legata alla condizione della donna che sopporta la detenzione del marito, del figlio, del padre. Un ruolo pesante, che va dal peso economico al pregiudizio e allo stigma di chi ha qualcuno in carcere. E noi dobbiamo farci carico di questa situazione, che non è come un femminicidio ma pesa” prosegue la direttrice.
La violenza contro la donna è una violazione dei diritti umani, lo ribadiscono tutti convinti. “Le forme sono le più diverse. La libertà di essere donna e di essere una dona realizzata non è ancora una libertà, lo dice la cronaca". Il momento dei detenuti arriva quando prendono il microfono e danno voce alle donne, leggendo un pezzo per uno una storia scritta d Serena Dandini dedicato a parole che le donne avrebbero voluto dire e invece no hanno avuto il tempo, dopo giorni e giorni di prove. Sono emozionati, ma la voce non trema, le loro sono parole di libertà.
Quelle parole che entrano anche nei tribunale. “Questo evento è particolare. Sono andato spesso nelle scuole, ma – sottolinea l’avvocato Alessandro Calogiuri – oggi siamo di fronte auna platea differente. Al violenza di genere ha nel genere la sua radice insita. Una donna è colpita in quanto donna. Un problema culturale, dobbiamo lavorate sull’educazione e la rieducazione. Tutti abbiamo in mente l’archetipo del mostro, è quello che fa notizia. Invece le famiglie non sono bianche o nere e non lo sono gli autori, navighiamo in una infinita sfumatura di grigio. E così ‘avevo un mostro in casa e non me ne sono accorta’ diventa la frase più drammatica. E infatti è stata ripetuta più volte dai detenuti lettori”.
Contro questo bisogna agire: “La violenza di genere non ha un autore specifico. È una violenza prossimale, spesso parte da maltrattamenti in famiglia, coniugi, padri e compagni sono i protagonisti. I giovani devono capire cosa sia la violenza di genere, che non è altro rispetto da noi. Le relazioni devono crescere con entrambe le parti. Se la relazione invece pende da un alto, qualcosa non funziona. Non è normale che vengano richieste le password dei social, la violenza non sono solo schiaffi, coltellate e stupro. Violenza è anche quella psicologica” ribadisce l’avvocato.
Purtroppo il vicino di casa non sente mai nulla, l’amica non si chiede mai perché gira con un foulard anche ad agosto, che una volta tolto mostra i segni della violenza: tutti dobbiamo e possiamo fare di più. Se c’è una cosa che blocca la denuncia spesso è la paura di essere giudicate. Impariamo a essere accoglienti e la violenza emergerà e la combatteremo. Perché una volta che la donna denuncia, il sistema è pronto” chiosa l’avvocato prima di lasciare la parola agli artisti di Congerie, il collettore di Valle Cascia, simbolo di integrazione e superamento delle differenze.
Sono loro che hanno preparato i detenuti durante un laboratorio in cui sono stati scelti i brani di Serena Dandini e Joyce Lussu, la partigiana fermana, e da cui sono usciti anche gli ultimi due testi della mattinata, uno da ‘Vigliacchi, il libro della 17enne di Amelia C, e l’altro dalla parabola del seminatore di Octavia Butler. E sono loro che fanno risuonare la parola patriarcato dentro le mura del carcere.
“Questa è stata un’occasione unica e speriamo non irripetibile” conclude la vicaria del Prefetto. Finisce così l’intensa iniziativa che alla fine viene colorata di rosso dalla panchina e tanti colori dall’opera di Ciccarelli.