*Il valore dietro le tre parole è enorme, come l’abuso che se ne fa. Si parla di liceo del made in Italy e lo si definisce un successo, ci sono 511 iscritti in tutta Italia, evidente che qualcosa non funziona. Non sempre conviene aggiungere, a volte basta migliorare quel che c’è.
Si fanno a livello nazionale tavoli con i grandi brand, della moda si discute di filiere e accorpamenti, per non parlare di fusioni, ma si dimentica l’identità dei territori. E che a farlo sia un ministro come Urso, che la bandiera dell’identità italiana ce l’ha nel sangue, fa specie.
Fa però bene il ministro, durante la presentazione della giornata del made in Italy, a parlare, per stare al settore moda, dell’Italia come ‘fabbrica del lusso’. Dovrebbe anche aggiungere che il merito è tutto delle piccole, piccolissime e qualche media azienda. Quelle che il ministro, ma anche tanti pensatori, vedono fuori mercato per la loro dimensione.
E così, anziché ragionare su un rilancio dei distretti, che erano la peculiarità del bel Paese, invidiati dal mondo, si insegue il modello francese dei colossi della moda. Certo, uscire dalla microeconomia locale è necessario, ma per farlo, se si vuole davvero fare forza al Made in Italy, si lavori a leggi vere, a blockchain realistiche, a produzioni territoriali. Per farlo, ma questo lo sa anche Urso, serve un costo del lavoro più basso, meno tasse per i ‘padroni’ e più soldi ai lavoratori.
Ecco, questo annuncio meriterebbe un titolo. Per il resto, siamo sempre al solito: il made in Italy è il brand più conosciuto al mondo, con Visa e Coca Cola, ma anche il più abusato. A parole e nei fatti, grazie a regole non certe, a contraffazioni e a politiche piene di parole e di pochi contributi tangibili.
*direttore www.laprovinciadifermo.com