di Raffaele Vitali
ALTIDONA – Dalle tasche dei pantaloni verdi tira fuori un enorme mazzo di chiavi, si avvicina alla porta del teatro ed entra nel suo regno, in quella che è la sua vera casa. Anche se per Pierpaolo Palloni, ormai, il piccolo palcoscenico di Altidona è più una questione di cuore che di lavoro, perché la sua vita di basso baritono scorre sulle assi di legno dell’Opera National di Parigi, duemila posti sempre pieni. Ma da Altidona il 41enne è partito e ad Altidona torna quando vuole rilassarsi, quando anche la musica si ferma. O è costretta, come nel caso del Covid, a fermarsi.
Pierpaolo Palloni, voce del coro dell’Opera di Parigi, come si diventa un cantante lirico?
“La prima domanda è: ma quanta passione serve? E a dire il vero non lo so, per me è arrivata per caso. Anche se avendo due sorelle più grandi che cantavano nel coro di Altidona devo aver respirato musica”.
E dalla corale ha iniziato?
“Mi ricordo ancora il primo provino, avevo 15 anni e le mie sorelle erano sicure che potessi essere utile. A 14 anni avevo cambiato voce, era mutato il tono. Un trauma all’improvviso. Io che cantavo Mina fin da piccolo e improvvisamente mi trovavo con il vocione”.
La corale è stata la sua palestra?
“Un giorno è arrivata una insegnante di canto per un corso di orientamento vocale. E rimane stupita della voce naturale, già predisposta che avevo. È stata la mia talent scout. Avevo 17 anni e mi sono trovato di fronte al primo bivio: frequentavo il Montani, ma era chiaro che la strada doveva essere un’altra”.
Il conservatorio?
“Mi presento all’esame di ammissione senza dire nulla ai miei genitori. E andò bene, mi presero al Pergolesi. Solo dopo l’ho detto ai miei genitori, temevo si arrabbiassero, e invece avevano capito la mia passione”.
Fermo come scuola?
“Per un anno, poi mi sono trasferito a Pesaro, al Rossini. Mi ha spinto un tenore, Robleto Merolla, che mi ha seguito per i cinque anni di studi. Quasi un secondo padre. Aveva grandi progetti per me, gli piaceva la mia voce”.
Solista o coro, come si sceglie?
“Lo studio è per il solista. Ma durante il conservatorio, grazie a una conoscente, ho affrontato le audizioni per il coro lirico marchigiano per la stagione dello Sferisterio. Andò benissimo e ho iniziato a lavorare con loro nel 2000, nell’Aida di Ugo Deana. Durante l’anno proseguivano le lezioni e lo studio al Rossini. Ma più vivevo la dimensione del coro e più mi appassionavo. L’idea di cantare insieme mi affascinava, poter stare tra tante nazionalità”.
Ma nel coro non si emerge, l’artista non ha un ego più marcato degli altri?
“Quando decisi questa strada, il mio maestro si è infuriato. Ma io ero convinto. Lo spirito di gruppo per me era la chiave e mi dava anche più stabilità. Il solista ha il suo pregio, ma è stressante, perché ogni sera si gioca il tutto per tutto. Bastano due sere di ‘buu’ e si rischia la carriera. Serve un carattere molto determinato. Io ho votato la mia vita a questo lavoro, ma non voglio esserne fagocitato. Mi capita di fare concerti da solista, ma resto convinto della mia scelta. Si spicca meno all’interno di un gruppo, ma è quello che volevo, non restava che trovare il palcoscenico giusto”.
Prima il diploma, poi il lavoro. Come funziona nel suo mondo?
“La prima audizione alla Fenice di Venezia. Mi avevano preso, ma nel frattempo il Gran Teatro Eliseo di Barcellona mi chiamò. Avevo voglia di partire, volevo scoprire un altro paese. E così, addio ad Altidona e Venezia: in Spagna ci sono rimasto per otto anni”.
Barcellona però a un certo punto le stava stretta?
“Non c’è una ascesa possibile all’interno del coro, a parte i ruoli da comprimario solista. Certo, stavo in u teatro incredibile, però avevo l’Opera di Parigi che mi chiamava. È stato il mio primo viaggio all’estero Parigi, ho visitato ogni angolo, avevo 18 anni”.
La grandeur francese?
“Non possiamo dire che sia il più importante, sta al livello con la Scala, il Metropolitan e Vienna, ma è sicuramente come struttura la più imponente, tra l’altro è raddoppiata con Opera Garnier e Opera Bastille, 2mila e 2700 posti. Due luoghi con una programmazione incredibile. Volevo arrivar lì”.
Come è arrivato all’Opera?
“In Francia si entra tramite concorso pubblico. Ogni tanto c’è un ricambio, che è fondamentale in un coro. I più anziani insegnano il mestiere, come stare sul palcoscenico e quale atteggiamento da tenere. Poi ci sono le voci giovani che portano freschezza e aiutano a migliorare il colore. Era il 2015, un nuovo inizio”.
Quando si entra in un coro qual è il clima? Ci sono invidie?
“Il coro vive della squadra, il primo compito è far sentire ‘dentro’ chi arriva. Poi chiaro che quando si lavora in un tetro così, la competizione c’è. E all’inizio ogni collega ti ascolta con l’orecchio vigile. Ma se ti impegni, sei accettato bene”.
La lirica come vantaggio ha la lingua?
“Il 60% del repertorio operistico è in italiano. Poi c’è una bella fetta in tedesco”.
La sua passione tra i grandi compositori?
“Puccini in testa, poi Verdi con la sua maestosità”.
Quante persone ci sono in un coro?
“All’Opera sono 114 i titolari, poi sul palco dipende dall’opera che si esegue. Un esempio, per un Flauto magico si parla di 40-50 persone, per un’Aida magari 100. La competitività è anche per questo, soprattutto quando c’è il formato ridotto dove la responsabilità di ognuno emerge”.
Arriva il direttore e dice, oggi non canti. Che effetto fa, si mette in discussione?
“C’è una forma di rotazione nel coro, ma i meritevoli i ruoli li tengono in maniera regolare. Certo poi mi sono chiesto ‘ma perché lui?’.
E lei normalmente è scelto?
“Devo dire di sì. In media canto in 100 spettacoli all’anno”.
Opere classiche o anche moderne?
“All’Opera ne facciamo tante. E a me piacciono tantissime. Dopo 20 anni, 15 Traviate, tantissime Aida. Ormai le sappiamo a memoria e infatti ci sono anche meno prove. Poi arriva l’opera contemporanea, dove parti da zero. È più complessa come lettura musicale, con accordi a volte stridenti, ma è un bel challenge”.
Nascono amicizie sul lavoro?
“Tra gli uomini c’è complicità, in particolare tra i bassi, anche perché siamo la voce che compete meno. Tra le donne c’è più gara. Per un soprano si presentano in 120, per il mio ruolo in 40. Il timbro del basso è più raro, le voci acute sono più comuni, ma sono anche quelle per i solisti”.
Come si allena un cantante?
“Vocalizzi ed esercizi di respirazione. La giornata tipo è un canticchiare continuo. Non sono quasi mai mattinieri i cantanti, dobbiamo essere produttivi quando c’è lo spettacolo dalle 19 in poi. La mattina non è mai bello cantare, quindi ci si limita agli esercizi di respirazione per allenare diaframma e addominali. Mai troppo esercizio fisico, i palestrati non rendono mai un granché. E poi c’è lo studio, dobbiamo sapere le opere a memoria, con l’aiuto dei maestri di canto che è continuo”.
Quante opere conosce?
“Non le ho mai contate. I solisti si specializzano, ma anche loro sono legati a come cambia la voce nel tempo, il colore e il volume insieme con il corpo. E anche loro devono rimettersi in discussione, quello che percepisci a 20 anni è diverso dai 60. Tenersi in costante allenamento è fondamentale e non è semplice allenare qualcosa che non vedi, devi fidarti delle percezioni. Per questo non è facile neppure trovare l’insegnante giusto, perché lavorare su qualcosa di soggettivo rende tutto più difficile”.
Quanto dura la carriera di un cantante?
“Due tre anni o una vita. In Francia si può andare in pensione dai 59 anni”.
Quanti italiani nel coro dell’Opera National?
“Sono l’unico marchigiano, ma gli italiani siamo almeno una quindicina”.
Quale step di carriera può ancora fare?
“Il salto da Barcellona a Parigi è uno dei più grandi. Il Metropolitan e La Scala sono gli unici forse superiori. Ma più per fama che per programmazione, anche se La scala nell’immaginario collettivo è qualcosa di unico”.
La Scala è un obiettivo?
“Sì e no. Mi piace l’idea di tornare in Italia, ma non so se cambierei di nuovo. Milano non mi avvicinerebbe a casa e il modo di lavorare del Nord Europa mi piace molto, c’è una grande organizzazione”.
L’insegnamento?
“Non ancora, ma mi piacerebbe. Sulla voce ci ho sempre lavorato, mantenere e aggiornare la tecnica non è solo migliorare, è mantenere”.
Palloni, ma il mondo dell’Opera, anche come genere musicale, è davvero distante dal cittadino comune?
“Spesso in tanti lo vedono così. Ma io sono la dimostrazione del contrario. La mia prima opera l’ho vista a Fermo, un Così fan tutte di Mozart a 16 anni. Mi sono detto ‘chi lo sa? Magari è il mondo’. Poi, con autori più abbordabili, ho avuto la mia conferma. E l’Aida allo Sferisterio mi ha appassionato definitivamente”.
Palloni, ma salire sul palco del Teatro dell’Aquila non l’attira?
“Mi piacerebbe molto, vedremo. Sarebbe bello uno spettacolo degli artisti marchigiani che lavorano all’estero e si ritrovano insieme per una sera”.
Domanda finale. A parte Mina, chi ascolta un cantante lirico, Jovanotti o Cremonini?
“Ascolto tutto, ballo anche la tecno. Amo la musica leggera, se posso mescolare anche quando organizzo cerco di abbinare la lirica alla leggera. Comincio da Battiato e dalla sua Cura. poi, se penso a una voce, l’unica che davvero mi colpisce è quella di Giorgia, è pazzesca”. È tempo di andare, le luci del teatro si spengono di nuovo, Palloni esce e passeggiando tra i vicoli anche Parigi sembra dietro l’angolo.