FERMO - Fino a qualche mese fa erano “angeli”. Le foto dei loro volti segnati dalle mascherine portate per ore campeggiavano dappertutto. Davanti agli ospedali comparivano striscioni e cartelli di ringraziamento.
Bar e pizzerie facevano a gara per offrire colazioni e spuntini. Poi il tempo è passato e il Covid è rimasto. Mascherine, gel e distanze sono diventati parte delle nostre vite, trasformando l’eccezionale, quasi, in normale. E loro, i “camici bianchi”, dal palcoscenico sono finiti dietro le quinte della pandemia. Nonostante l'emergenza non sia finita, anzi.
«Da una prima fase di grande attenzione al personale sanitario, si è passati a una rassegnazione e, a volte, a una conflittualità, per cui il personale sanitario sta raggiungendo il massimo dello stress fisico e psicologico e non si vede via di uscita», spiega la presidente dell’Ordine dei medici di Fermo, Anna Maria Calcagni, in occasione della Giornata nazionale del personale sanitario, sociosanitario, socioassistenziale e del volontariato. Una ricorrenza, per forza di cose, senza cerimonie (si terranno solo a Roma e a Codogno), ma non per questo meno significativa.
«Mai come in questo periodo di pandemia – dice Calcagni – è importante riflettere ed essere vicini a queste persone che sono state quella parte di umanità esposta a costante pericolo per la propria vita e per quella delle proprie famiglie, unici sostenitori della precarietà abbandonata a se stessa, senza affetti e consolazioni».
I ricordi dei guariti usciti dagli ospedali raccontano di un legame strettissimo tra malati e sanitari. Come lo scambio di sguardi dietro caschi e mascherine come unico strumento per comunicare, per rincuorare e, davanti all’inevitabile, per confortare chi non ce l’avrebbe fatta.
«Un ruolo – chiosa Calcagni – al quale non erano stati preparati pienamente nel loro percorso formativo, per svolgere il quale hanno fatto appello a quella umanità sommersa dall’aridità imperante».