di Raffaele VItaali
Emergenza Coronavirus, dottor Giorgio Amadio, primario del reparto di Malattie Infettive, come è la situazione al Murri?
“Il mio pensiero va a quelli che stanno lavorando per cercare di superare l’emergenza. Chi lavora senza pensare a riposi, senza guardare all’orario, che lavora senza sosta”.
Un lavoro ripagato?
“Negli ultimi giorni ci sono stati meno accessi. La situazione è migliorata, la maggior parte dei tamponi è negativa. Questo significa che le misure restrittive stanno migliorando lo stato. Non possiamo dire siamo fuori, dobbiamo mantenere queste disposizioni per poter riuscire a ridurre i casi”.
Lei cosa pensa delle possibili riaperture?
“Mi auguro che questo non avvenga prima di maggio, così forse metteremo in ordine la situazione. No sono d’accordo sulla ripartenza già dopo Pasqua”.
Lei crede nell’uso delle mascherine quando una persona esce?
“Sono una misura di prevenzione importante. Non abbiamo una idea precisa sulla diffusione del virus, portarle ha la sua valenza, soprattutto quando ci saranno le prime riaperture”.
Si parla tanto di test sierologici, lei come li valuta?
“Premessa fondamentale: l’unica metodica sicura è il tampone. Ma quando facciamo la sierologia del morbillo, troviamo anticorpi e sappiamo di stare bene. Significa che l’abbiamo avuta e siamo immuni. Vale per il coronavirus. Per poter dare una risposta sicura dovremmo conoscere meglio la dinamica degli anticorpi e avere test affidabili. Potremmo distinguere tra chi ha avuto e può girare e chi non ha avuto ed è a rischio. Il test lo usiamo già dentro l’ospedale, ma i dati ancora ci lasciano un po’ incerti (intanto l’Asur ha investito risorse per avere i macchinari necessari ai test, ndr)”.
Amadio, come vivete questi giorni lei e il personale del suo reparto?
“Giorni faticosi, molto brutti che hanno cambiato il rapporto con il malato. L’isolamento ci porta a non comunicare bene con il malato e con i familiari. Questo è uno degli aspetti più complessi. Comunicare guardandosi negli occhi è difficile, ma lo è ancora di più spiegare le situazioni critiche e magari farlo al telefono. Il lavoro del personale, soprattutto con i malati, con parole di conforto è stato fondamentale”.
I farmaci agiscono e se sì quali sono?
“Uno dei problemi è che non abbiamo farmaci con sicura efficacia. Abbiamo usato alcuni che dimostrano di agire. Non abbiamo certezza. Usato tutto l’armamentario possibile venuto fuori da questi studi. Usato quello per l’artrite reumatoide, farmaci per l’Hiv, che avevano una lieve efficacia poi venuta meno, poi il farmaco complementare, il Tocilizumab. Il quadro clinico del virus è particolare. Ha come primo obiettivo i polmoni e il danno che si ha è dovuto a tutta una serie di sostanze che vengono prodotte dall’organismo in risposta all’infezione. Il farmaco va a inibire questa sostanza, bloccando la risposta dell’organismo e il polmone non viene danneggiato. Usato con discreti risultati. E così anche altri farmaci, usati per altre patologie. E poi c’è il Plaquenil che hanno avuto dei segnali positivi”:
Il virus colpisce solo polmoni o, come pare, anche il cuore?
“Ci siamo accorti che questo virus può aggredire tutto l’organismo. Ci sono state diversi interessamenti cardiaci e intestinali. C’è un aumentato rischio di eventi trombotici, casi di embolie polmonari. Colpisce e danneggia più organi, chiaro che il polmone in primis”.
Chi è il paziente di malattie infettive?
“Il prezzo maggiore continuano a pagarlo gli anziani con pluripatologie. Avere una patologia di base cardiovascolare, essere diabetico o obeso e avere più di 70 anni aumenta i fattori di rischio di mortalità. Buona parte degli anziani avevano queste patologie”.
Il reparto?
“Avevamo 13 posti letto con capienza di 18, oggi ne abbiamo 32 ricoverati. Reparto diviso in due parti: una sub intensiva con posti letto motorizzati dove vengono ricoverati da pronto soccorso i più critici, che non necessitano di intubazione, ma ventilazione. Quando poi viene stabilizzato viene trasferito nel reparto di malattie infettive”.
Cosa è successo all’inizio quando ci sono stati i contagi interni?
“Questo non è un virus che fa venire gli occhi gialli. È infido. Abbiamo una buona parte di persone infettate e asintomatiche. Facile che siano entrate persone asintomatiche che hanno contagiato gli altri. le indicazioni iniziali erano, purtroppo, vieni dalla Cina, da Wuhan, da Piacenza o Codogno. Si pensava che i focolai erano lì, ma solo oggi sappiamo che il virus circolava da prima. È entrato nei reparti senza saperlo”
Quindi nessun errore?
“Abbiamo affrontato una emergenza provando a fermare l’onda di un metro col muretto di un metro e dieci. E invece è arrivata un’onda di tre metri. Noi, parlo di Italia, abbiamo affrontato la realtà con un sistema tarato con diverse patologie e casi. Fare tamponi significa reagenti, materiale e persone. Bene, facciamoli a tutti, ma con chi? L’emergenza ha coinvolto tutto il sistema. Forza lavoro è la base. Dal mio punto di vista abbiamo fatto un grande lavoro con le risorse a disposizione. Non siamo a Germania che ha preparato 40mila posti letto di rianimazione. Noi non li abbiamo e mai li avremo”.
Tamponi sintomatici a casa, è favorevole?
“Sapere quanto sono gli infettati cambierebbe le statistiche. Parliamo di elevata mortalità, ma riferita sul numero dei casi totali. Quindi fare i tamponi, sapere chi è positivo o negativo è importantissimo. L’infettivologo vuole sapere quanti sono gli infetti e su quello ragionare per prevenire la diffusione agli altri tramite farmaci o isolamento”.
Cosa le dà forza?
“La vicinanza di tantissime persone. Abbiamo avuto in dono qualunque cosa, dalla pizza alla tuta, al paziente ricoverato due mesi fa con il vassoio con le paste. Vicinanza incredibile”.
Dottore, ma le capita mai di sentirsi impotente?
“Purtroppo sì, soprattutto all’inizio quando c’erano davanti quadri clinici su cui non avevi grandi cose da fare. Paziente che non poteva usare la rianimazione e non rispondeva ai farmaci. Poi conoscendo la tipologia di virus siamo migliorati. Ci siamo trovati non impreparati perché cretini, ma per assenza di conoscenza. Siamo partiti da ‘adesso che facciamo’ a ‘ce la faremo’. Ma quanto è difficile spiegarlo ai familiari. Noi ci mettiamo al pomeriggio a telefonare alle famiglie dei ricoverati non è facile dire come sta il padre, il nonno, il figlio. Dire per telefono che sta morendo o sta lottando non è facile, lì mi veniva l’angoscia. Ma poi deve passare”.