"Se non avessimo un po’ di spirito positivo, di ottimismo, sarebbe una tragedia".
di Raffaele Vitali
FERMO – Prima lo scafandro, poi i grandi occhiali di plastica, poi la doppia mascherina: ora è pronta Luisanna Cola, primaria del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Murri, a riempire la stanza con il suo sorriso, con la sua forza, con il suo ottimismo. Lei, insieme ad altri 15 medici e 40 infermieri, rappresenta il fronte finale di questa guerra contro il Covid 19, il Coronavirus sconosciuto che si combatte con ogni mezzo. E che ha deciso di raccontare.
Dottoressa Cola, come è la situazione dentro il Murri?
“Dal 3 di marzo siamo in mezzo all'emergenza. Da quel giorno non c’è stata più sosta con i primi ricoveri in Rianimazione. Sappiamo che la malattia ha una fase altalenante, c’è chi manifesta i sintomi respiratori dopo qualche giorno e chi invece ha dieci giorni di febbre e poi inizia a manifestare problemi gravi. Questo è dovuto ai due diversi tipi di risposta di un organismo. E questo cambia i flussi di accesso all’ospedale”.
Quando è iniziato tutto?
“Dal 24 – 25 in poi i primi infettati, poi c’è stata la prima chiusura delle scuole, con le riaperture che hanno creato contatti e quindi contagi. Molti pazienti sono del ‘fine settimana’, quando la vita tornava normale. Penso al we dell’8 marzo. I positivi causati da questi giorni sono arrivati scaglionati in maniera quasi metodica. Ora invece ricoveriamo degli sporadici, quelli che si infettano perché magari sono meno attenti alle regole sociali, alla distanza. O magari per via di qualche familiare che è rientrato dal lavoro nel nord Italia”.
In reparto avete 14 pazienti, siete al limite?
“È stata una corsa contro il tempo. Siamo partiti con 5 posti letto. C’è stato un grande sforzo della direzione medica e dell’ingegneria clinica per dotarci di strutture. Attrezzare terapia intensiva non è una cosa semplice: bocchettoni per l’ossigeno, aria compressa, prese. Gli operai hanno lavorato dentro la rianimazione con i pazienti ricoverati per ampliare le prese. Trasformare in una settimana una rianimazione da 5 posti in 12 e poi inglobare l’Utic e poi farlo diventare sub intensiva ha richiesto un grande sforzo. Non ancora finito, abbiamo altri 4 posti letto da sistemare. Alla fine potremo usare 19 letti di rianimazione. Al momento il paziente più giovane, dopo che abbiamo dimesso il 46enne ha 53 anni”.
Più posti, ma le persone?
“Siamo noi. E tenete conto che abbiamo aperto anche una sala operatoria chirurgia completa per i pazienti Covid. Abbiamo un blocco operatorio al settimo piano, ma se lo contaminiamo è complicato disinfestarlo. Abbiamo aperto così questa sala fondamentale, qualsiasi paziente che ha bisogno di un intervento verrà operato. Per fare questo, ognuno di noi lavora tra le 12 e le 14 ore al giorno. E capita anche di fare facchinaggio e pulizia. A oggi siamo 16 medici e 40 infermieri, che all’inizio invece erano solo 16”.
Un numero sufficiente?
“Siamo 16 medici, ma continuiamo anche a seguire gli interventi chirurgici quelli non rinviabili, penso ai tumori. E garantiamo tutta l’assistenza al No Covid con una equipe di 5 persone, il resto è la truppa cammellata che sta in rianimazione. Con tutta una serie di accorgimenti, come il non sprecare i Dpi, dispositivi di protezione, che scarseggiano. per essere efficienti, abbiamo anche richiamato un anestesista andato in pensione, il dottor Antolini, e inserito anche una specializzanda. Il problema è che gli anestesisti non si trovano in tutta Italia”.
Dottoressa, ma quanto pesa questa emergenza sull’aspetto umano?
“Ci sono momenti strazianti e poi le gioie, come oggi quando abbiamo dimesso un paziente e abbiamo videochiamato i familiari. Abbiamo dimesso pazienti da rianimazione a malattie infettive. Momenti commoventi per i familiari e per noi. Noi abbiamo fin dall’inizio imperniato la rianimazione all’inizio aperta e con attenzione alle cure e ai familiari. Ora abbiamo pazienti che intubiamo e sono svegli, sono lucidi. E questi hanno la forza di chiamare i familiari. Videochiamare le famiglie è anomalo, normalmente siamo abituati a prendere pazienti esanimi che rianimiamo. Qui ora arrivano persone lucide che non hanno più contatti con i familiari: non possono vederli, non possono parlarci, se muore non possono neppure fare il funerale. Per questo ci siamo dati una policy della comunicazione con i familiari, li chiamiamo spesso, cerchiamo di avere contatti umani, sempre da scafandrati. Abbiamo pazienti che poi ci dicono ‘non vi ho mai visto in faccia’. Ma il corpo parla. E poi c’è il fatto che le famiglie sono in quarantena, alcuni malati con sintomi con il terrore di sviluppare una malattia grave”.
Dottoressa Cola, questo Covid 19 è così difficile da affrontare?
“Diverse risposte alla malattia che è una invasione degli alveoli polmonari da parte del virus. La percentuale di popolazione che viene colpita supera la curva che il sistema sanitario può reggere. Se stiamo sotto la curva, diamo assistenza, se saliamo oltre la curva, alcuni pazienti non riusciamo a gestirli. In se per se ha un 7% di casi che finiscono in rianimazione con mortalità del 2-3%. Ma sono dati in tempo di pace, non in tempo di guerra. Se ho 8 posti e arrivano in 100 qualcosa non torna. Per questo servono i posti di terapia intensiva, la durata dell’insufficienza respiratoria è lunga, va da due a tre settimane. Ho ancora in reparto i pazienti del 3 marzo. Se non riesco a fare ricambio, devo aumentare il numero di letti. E se la popolazione on osserva le regole di contenimento, non avremo più posto”.
Si parla sempre di morti con patologie pregresse. È così?
“Provo a chiarire. Sopra i 65 anni è consigliato il vaccino antinfluenzale perché pazienti con patologie cardiache e respiratorie possono anche morire per una influenza, per le sue complicanze. Ipertensione arteriosa, diabete alimentare, problemi cardiovascolari, bronchiti da fumo, asme sono fattori che pazienti fino a 65 anni compensano, oltre meno. Gli over 75 se si ammalano non guariscono più del tutto. Questa è una sindrome influenzale molto virulenta e presa tutti insieme, mancando l’immunizzazione di massa, diventa pandemica. Per cui nei pazienti over 75 che hanno pluripatologie avere una polmonite così grave da sopportare una ventilazione molto aggressiva rende tutto complicato. Tenete conto che le persone dobbiamo pronarle per aumentare la superficie ventilabile. Un paziente per Covid viene sedato pesantemente, c’è ipotensione arteriosa e poi le pressioni del ventilatore che agiscono sul cuore, i più fragili vanno incontro a complicanze: infarto, insufficienza renale e altre.
Per questo secondo me ‘con o di’ coronavirus è inutile dirlo, il Coronavirus fa precipitare situazioni complicate. Se la prende un anziano mal sopporta quello che facciamo per provare a farli sopravvivere. I giovani faticano, ma reagiscono. Ci vogliono settimane ma li tiriamo fuori, tutti”.
Qual è l’umore di voi sanitari?
“È come lo stress da doglie. Uno stringe i denti e spera che passi. Solo che noi siamo sempre in mezzo alle doglie. Siamo diventati molto più uniti, siamo davvero una grande famiglia. Ci cambiamo insieme, doccia insieme, mangiamo insieme. Non ci sono più studi e stanze. Siamo accampati cercando di tenere percorsi puliti. Impatto psicologico molto forte, tanta sofferenza, tanta gente che chiede conforto, tanti familiari disperati, l’incertezza del domani. La speranza, la preoccupazione per i farmaci. Tutto dentro le nostre teste”.
Cosa vi dà energia?
“Penso alle donazioni. Nessuno è partito con l’idea di farsi donare qualcosa, ma veramente abbiamo così tanta gente che vuole donare. Davanti all’ospedale c’è un piccolo alimentari a gestione familiare, ogni mattina, senza che qualcuno abbia chiesto, ci porta un sacchetto con dieci panini farciti e lo lascia fuori dalla porta, neppure bussa, come con le suore di clausura. Industriali, cassa di risparmio, una cittadina di Fermo che vive in Inghilterra ci ha donato un ecografo pagato da lei. A noi questo ci tira su il morale, ci fa sentire apprezzati. Non eravamo abituati. A noi di Anestesia e rianimazione non ci conosce nessuno”.
Avete tempo per avere paura?
“Ce l’ho verso le 3 del mattino e così molti colleghi. Ci svegliamo, abbiamo quel momento di panico. E poi ci riaddormentiamo. Nessuno di noi vive più in famiglia. Chi è costretto a stare a casa ha diviso gli spazi. Cucino con la mascherina, mangiamo divisi. E chi ha figli piccoli, tutti separati. Non abbracciamo i figli da settimane. Ci hanno fatto il tampone a tutti nel reparto, anche grazie allo sforzo organizzativo non abbiamo nessun infetto, tolto un caso inziale. Oggi sei negativo, ma non è che fai la festa. La notte ci messaggiamo, si dorme male. Abbiamo paura perché noi vediamo la parte più brutta della malattia. Poi la mattina ci resettiamo, scherziamo con i pazienti, videochiamiamo i familiari”.
I vostri volti segnati dai Dpi hanno commosso l’Italia. è così dura?
“Ci dobbiamo vestire talmente tanto che muoversi è difficile. Fare una telefonata, scrivere al pc, fare un prelievo è tutto complicato. Anche parlare è quasi impossibile, dobbiamo urlare tutto il giorno per sentirci ovattati. E respiriamo malissimo. Scafandro, doppia mascherina, occhiali. Tutto - e si toglie gli occhiali per mostrare il volto segnato - preme sul naso, la sera abbiamo le piaghe. Ora ci hanno donato dieci caschetti che sembrano quelli di chi taglia l’erba, ma per noi sono fondamentali, ci proteggono senza pressione”.
Tante difficoltà, ma non vi fermate.
“Difficile lavorare così. Ma la ricorderemo come una esperienza meravigliosa, stiamo imparando tantissimo. Anche sulle priorità della vita. non potete capire cosa significa per chi sta in questo reparto vedere un paziente uscire e sentirsi dire “spero di non vedervi mai più” e magari fa anche le corna. Per noi sta uscendo vivo, di certo oggi gli studi sono ripagati”.
Dottoressa, lei sui social ha criticato Guido Bertolaso, perché?
“Non l'uomo, ma una situazione al porto di Ancona. Non può essere lui il primo a usare male una mascherina. Se la prevenzione non è fatta bene, gli ospedali diventano untori. Bertolaso non deve girare con quella con la valvola che lascia uscire goccioline, non va bene in questi casi. Noi stessi, in reparto, la mascherina con la valvola non la usiamo, anche se so bene che allevia il senso di soffocamento dell’operatore. Ma è meglio evitare ogni possibile contaminazione”.
È d’accordo però con l’ospedale da 100 posti di rianimazione?
“Come idea sì, mi chiedo dove prenderanno materiale e personale. Noi abbiamo 15 ventilatori, ne arrivano 5 nel fine settimana e nel giro di 15 giorni ne arrivano altri. Mi sono attrezzata per tempo. Ma ora non di trova più niente. La vera soluzione sarebbe stata un ospedale da 500 poti e tutti a lavorare lì. Piuttosto che fare tante rianimazioni da pochi posti, si concentrava in un’unica struttura. Così facemmo dopo lo Tsunami in Indonesia, grandi strutture dove si può lavorare su più pazienti alla volta riducendo il personale, questa è la medicina delle catastrofi. Così fanno a Milano con 500 posti letto”.
Cola, quando usciremo da questa emergenza?
“A Wuhan ci sono voluti due mesi e mezzo. Noi abbiamo chiuso tutto il 9 marzo. La prima cosa è avere pazienza, è presto. Noi speriamo nella riduzione del picco, perché poi la lunga coda diventa gestibile”.
Insomma, affaticata, con un po’ di paura, ma sempre col sorriso. ce lo dica il suo segreto.
“C’è un racconto di Buzzati che racconta l’odissea di un paziente che entra al piano terra e per sbaglio viene spostato di piano in piano. E dal piano terra che non aveva niente si ritrova tra i morenti dell’ultimo e muore. Noi siamo quelli che da sempre prendono l’ultimo piano. Se non avessimo un po’ di spirito positivo, di ottimismo, sarebbe una tragedia. Tutti i pazienti in teoria non ce la fanno. E invece, non ci rassegniamo. L’anestesista è colui che si prende cura, siamo ancelle, abituati allo stress. Certo è che diversamente da quando curiamo chi sta per morire, noi oggi ogni ora dobbiamo pensare a non diventare vittime e a restare lucidi per salvare persone”.
@raffaelevitali