di Raffaele Vitali
SERVIGLIANO – Tutto pronto, “anche se non so ancora come sarà l’allestimento, ma tanto a Servigliano sono di casa”, per Federico Buffa e il suo ‘Buffa incontra Jordan’. Uno spettacolo inedito che lo storyteller ha scritto pensando a Storie, il festival diretto da Manu Latini che porta la cultura nei borghi dell’appennino fermano maceratese che con tenacia stanno superando il terribile sisma del 2016. Uno spetatcolo che anticipa in una intevista esclusiva alla provinciadifermo.com.
Buffa, il suo spettacolo è molto atteso. È pronto?
“Non parlo in pubblico di basket da almeno dieci anni. Ci voleva Fabio Paci (anima di Storie, ndr), sa farmi fare cose incredibili. Mi ha fatto un certo effetto andare a riprendere i miei faldoni da commentatore professionale. Mi sono anche divertito a recuperare storie perse”.
Un debutto che prelude aa una tournée?
“Per qualche motivo, dopo questa sera, lo rifarò quattro volte in Sardegna nel mese di aprile. Ma al momento non ho ancora le idee chiare, improvviso, è qualcosa di sperimentale. Confido sul fatto che ci sia un pubblico a cui non devi spiegare chi è MJ, un pubblico che sarà coi voto di suo. Spero di avere spazio e mezzi per proiettare immagini, sono necessarie”.
Lo sa che mezza Italia la attende?
“Lo spettacolo potrebbe nascere e morire. Ammetto però che mentre lo forgiavo avevo la sensazione che mi piacerebbe vederlo anche a me”.
Jordan ultimamente si è raccontato spesso.
“Pensiamo a ‘The last dance’. Non voleva farlo uscire, poi quando ha capito che LeBron James stava passando per il migliore, quello che ha cambiato il basket, ha chiamato Netflix e ha dato la liberatoria. Voleva mettere in chiaro chi fosse il migliore”.
Ma è stato davvero unico nel suo genere?
“Chi non lo ha visto davvero, solo guardando certe immagini si rende conto che quest’uomo ha fatto cose che non erano mai state fatte prima”.
Personaggio complesso rispetto ai campioni di oggi?
“Chi gioca oggi non ha vagamente la sua personalità. Lui ha cambiato davvero il mondo. Ha smesso di giocare nel 1998, poi ha fatto altri due anni. Di fatto tutti i giorni si mette sul divano e arrivano i soldi delle scarpe. Nessun giocatore che ha smesso nel 1998 può permettersi di avere la scarpa ancora più venduta. È andato oltre il tempo. A differenza di tanti altri lui vive nel tempo. Ha smesso da vent’anni, ma è dominante”.
Lo ha aiutato l’essere protagonista di serie e film?
“Teniamo conto che è tutto orchestrato da lui. Ma io racconterò qualcosa che non ho mai detto”.
Una chicca dello spettacolo?
“Jordan non faceva altro che ripetere alla madre che sarebbe morto giovane. Lui ha rischiato di morire da piccolo, davvero tante volte. Ma in realtà in quella frase c’è il suo annoiarsi. Il basket era ed è il suo rifugio, la sua ragione di vita. Lui sta cercando di tornare a peso fisico di quando giocava, ma è impossibile. Vuole fermare il tempo”.
Il suo è uno spettacolo che può servire ad avvicinare i giovani al basket?
“Più che altro è uno spettacolo che fa capire che in un mondo che consuma tutto in fretta, c’è qualcuno che ti fermi a guardarlo e resti conquistato. E non è solo una questione di immagini”.
Personalità dominante, difficile da digerire per i compagni?
“Prendiamo il suo discorso di accettazione nell’inserimento nella hall of fame. Una cosa unica nel suo genere. Di solito tendi a essere riconoscente e bonario. È aggressivo, offensivo, conflittuale. Per niente. Lui li ha nominati uno per uno, anche quelli che non l’hanno accetto, e ha chiuso con un ‘potrei tornare a giocare a 50 anni’. Di fondo non accetta che qualcuno possa fare quello che solo lui aveva creato. Quel ‘potrei tornare’ è una vera minaccia. È un po’ come dire ‘non pensate che io non possa tornare, se io no torno è perché non voglio’. Ti dà quella sensazione di immortalità. Non potendo averla non riesce a vivere”.
Ma è davvero un cattivo?
“È molto peggio di come si vede. E Bryant era proprio così. Sono quelle personalità abrasive, chiedono a se stesso e non lasciano vivere gli altri. Questa gente dovrebbe giocare da solo. Se gioca con i compagni, non ti lascia vivere se capisce che lo stai facendo perdere”.
Un’altra chicca dello spettacolo?
“Al tempo andavo tanto negli Usa, l’ho visto giocare davvero tante volte, più di ogni altro giocatore. Il suo direttore della comunicazione non lo chiamava Michael, ma Gesù. E la sua security lo chiamava Iavè, dio in ebraico. C’è una percezione di lui che va oltre i limiti dell’essere umano. Nel racconto proverò a farvelo capire”.
@raffaelevitali