di Raffaele Vitali
FERMO – Giuseppe De Rita è volto e mente del Censis e con il suo ‘viaggio in Italia’ fa tappa nelle Marche, anche se virtualmente, chiamato da Gino Sabatini, presidente della camera di Commercio delle Marche. E meglio per lui il virtuale, altrimenti avrebbe impiegato chissà quanto tempo volendo arrivare in treno, in aereo o in auto tra cantieri e strade mai completate.
Dal 1955, “sono molto vecchio”, è in azione, dopo ave letto Viaggio in Italia di Piovene. A 88 anni ha ancora una visione lucida del Paese. Ma anche per lui non è facile inquadrare le Marche e il loro destino. Secondo Salvatore Giordano, vicepresidente della Camera di commercio, “il Pil delle Marche per il 70% è legato alla costa e il sistema manifatturiero si è evoluto in questo modo, con il 70% della ricchezza legato alla sub fornitura e questo comporta che abbiamo solo un piccolo grappolo di aziende con fatturati superiori a qualche centinaia di milioni”.
Queste sono le Marche colpite dal Covid. “La crisi di solito crea consapevolezza di sé. Bisogna partire dalla storia per capire quello che sta accadendo. Le Marche si sono trovate di fronte a due ipotesi di azione negli anni ’80 e ’90: una orizzontale e una verticale. L’integrazione tra Umbria, Marche e Lazio è sul tavolo da decenni, per far fare gruppo all’Italia centrale, spesso saltata nella gestione tra nord e sud. Poi invece è uscita la linea adriatica, la dimensione verticale”. Di fronte a questo percorso è migliorata l’integrazione est-ovest, ma il problema delle Marche verso l’Ovest è rimasto costante, ma anche verso Bologna. “Sono due anni che non vengo nella vostra regione, ma la mancanza di respiro verso il Tirreno è evidente. Il terremoto ha creato una attenzione spasmodica verso le aree interne, ma il problema è che le Marche sono fatte a pettine, costa e valli che però non sono spostamenti, ma organizzazioni interne del modello marchigiano che ha il primato della costa”.
Resta quindi il problema dell’assenza di sviluppo orizzontale. “Se penso alla fatica per Valfabbrica, per unire Fabriano a Perugia, ci dimostra solo che sono ancora mondi diversi, nonostante i pochi chilometri di distanza”. Il terremoto potrebbe essere l’occasione per creare un collegamento più serio, ma la speranza è bassa visto anche lo stop alla linea Adriatica, strozzata in Abruzzo, con la Puglia che ha preso una sua personale strada.
Di fronte a due logiche monche, cosa sono diventate le Marche: “Una terra di terziario, autonoma con le sue Pmi e il consolidamento di sottosistemi territoriali, dal mobile alle calzature. Il sistema marchigiano si era strutturato per vivere senza le sinergie. Questo fino alle crisi del 2000 che ha messo in forse scelte precedenti”. E il coronavirus sta solo ampliando la crisi del sistema compatto marchigiano, la soggettualità è andata in difficoltà.
Inevitabile parlare dei distretti, anche se De Rita ne farebbe a meno: “Una storia meravigliosa che si chiude negli anni 2000. La specializzazione settoriale è stata la carta vincente, poi la globalizzazione ha portato i flussi sopra il valore del luogo. È cresciuto il valore dell’innovazione rispetto alla specializzazione. Ma quale è l’innovazione oggi? Si pensa a quella fatta in casa, partendo dagli accordi interni, ma la vera innovazione è la gestione della filiera. Dico sempre, puoi fare la più grande ricerca possibile sulla bontà del peperone, se poi non entra in filiera, nella realtà enogastronomica fatta di distribuzione e accordi con chef, non ce la fa. Diventa un prodotto ad altissima qualità intrinseca, il peperone perfetto, ma non sta nel mercato”.
E da qui anche i suoi dubbi sulla Shoes Valley su cui sta pensando di puntare il distretto calzaturiero: “Non credo più nella dimensione territoriale. Bisogna inserirsi in dinamiche extra territoriali. Alcuni tengono ad avere una eccellenza nella filiera. Il tempo delle Valley è passato, è una moda che non c’è più, una coazione del territorio, bella dal lato umano e sociale, ma poi si sconta verso processi di globalizzazione. Quindi la vallo o il distretto o sono una eccellenza ed entrano nella filiera, altrimenti si isolano”:
E non si parli più solo di infrastrutture, di collegamenti, perché se è vero che il problema c’è, per De Rita non può diventare l’alibi: “Assenza di infrastrutture, ma le integrazioni sono state sempre fatte. Penso a Pesaro e alla sua integrazione con la Lombardia. C’è invece un problema di cultura del dirigente marchigiano che preferisce la realtà compatta da guidare e non dispersa, con occhi dappertutto. Una realtà che ama concentrarsi su se stessa, compattandosi. Ma le filiere, che sono qualcosa di più del rapporto fornitore produttore, hanno bisogno di piattaforme. La sfida è portare la compattezza dentro un sistema senza rimpiangere la dimensione e l’alibi del non avere infrastrutture. Anche perché le strade nuove non stanno creando una germinazione economica, sembrano ponti più che strutture di connessione, ponti tra due realtà, Umbria e Marche, che hanno culture e analogie ancora molto diverse”.
Quindi, non resta che il salto culturale: “La dimensione imprenditoriale non può essere più minuta. Oggi l’importante è l’aggregazione delle filiere, ma sono cose molto complesse. La realtà delle Marche deve riconoscersi come sistema particolare, che non appartiene né al centro Italia né allo sviluppo internazionale” conclude De Rita.