di Raffaele Vitali
FERMO - Il trolley sembra parte di lui, una specie di aggiunta a un corpo che all’apparenza sembra delicato e che invece non teme il movimento, non si ferma di fronte a caldo, freddo, salite e ore di volo. Del resto Angelo Ferracuti, scrittore di professione, è il figlio di Forrest Gump, di un uomo che ha saputo percorrere migliaia di chilometri correndo da un angolo all’altro del mondo seguendo il rumore delle scarpe sull’asfalto. E questo dopo una vita sedentaria e di certo non emozionante.
La vita di Angelo e suo padre Mario, da pochi anni scomparso, è diventata un libro, coinvolgente e appassionato, “un libro che dovevo scrivere” racconta Ferracuti mentre attende il suo treno, inesorabilmente in ritardo, sulla banchina della stazione del treno.
Angelo Ferracuti, come è nato ‘Il figlio di Forrest Gump’ edito da Mondadori?
“Me l’aveva chiesto mio padre due ore prima di morire. Glielo avevo promesso. Mi ero preso un impegno, poi scrivere il libro è stata un’altra cosa”.
Faticoso come una lunga corsa?
“Lui immaginava un racconto sulla sua epica. Io invece intreccio la mia e la sua storia, quelle di un atleta tardivo con la mia di giovane che dopo un infortunio durante i cento metri smette di giocare a pallone. È quello il momento in cui sono diventato uno scrittore, un lettore, un militante politico molto diverso mio padre, che era scuola Dc. È nato così il racconto contestualizzato negli anni ‘70”.
Un libro vero o di fantasia?
“C’è tanto della mia vita. Parto con mio nonno morto suicida durante il fascismo, che si chiamava come me. Mio padre da questo è rimasto molto condizionato, era un uomo molto affettuoso all’esterno e anaffettivo all’ interno della casa. Un libro che ripercorre conflitti politici e generazionali, mente inizia la sua impresa. Mi sono riavvicinato pagina dopo pagina alla storia che avevo vissuto in maniera distratta. Ho trovato filmati e documenti. Lui ha fatto una 48 ore di marcia no stop nel 1985 ad Ascoli Piceno. Aveva 58 anni, una cosa incredibile, sembrava un personaggio dell’antichità. Un evento, c’erano 5 mila persone a seguirlo”.
Da qui il soprannome Forrest Gump?
“Era simpatico come nome. Lui è stato un Forrest Gump, ha iniziato tardissimo dopo ave vinto un tumore. La sua è stata una ribellione anche alla malattia. Una ribellione alla morte e al mondo che stava cambiando. La civiltà contadina gli mancava. La corsa l’ha poi portato a girare il mondo, un mondo che gli ha fatto vivere un’altra vita. Ha perfino partecipato alla marcia della pace organizzata dalla Cei a Gerusalemme, con italiani palestinesi e israeliani. Lui era il portabandiera perché era il più anziano. Se ci pensate è qualcosa di incredibile, soprattutto se ci aggiungete i 300mila chilometri percorsi di gare ufficiali, inclusa la classica maratona di New York”.
Non è che i suoi continui viaggi sono una specie di prosieguo del correre di suo padre?
“L’attività della scrittura è simile a quella della maratona. La resistenza del maratoneta lungo il tempo è quella mentale di uno scrittore che deve a volte resistere per anni dentro una storia. Poi ci sono momenti creativi forti, ma il lavoro che c’è dietro è complesso e approfondito. Ho lasciato indietro tante cose per scrivere questo libro, del resto mio padre non aveva mai mollato una corsa. Era per lui una religione che non si abbandona”.
Il finale è come suo padre avrebbe sperato?
“Racconta il viaggio di cui abbiamo parlato per 30 anni e che non abbiamo fatto, di , in questa strada blu che inizia nel nord della Norvegia e finisce al confine tra Finlandia e Russia. Un viaggio che ho scelto di fare da solo, da Oslo in treno, poi Norvegia, Lapponia e sono arrivato in questo posto pazzesco che avevamo immaginato per tanti anni. E lì la letteratura può raccontare quello che non è mai successo. Lì ho immaginato l’incontro con mio padre”.
Un libro che le è servito?
“Un testo che mi aspettava, che prima o poi avrei scritto. Un libro pacificatorio dove ho fatto un bilancio della nostra storia, della famiglia. Inclusa mia madre che al contrario di mio padre era una camiciaia, ma molto lirica, la donna che sussurrava alle bouganville e parlava con le farfalle. Questo libro è il secondo di una quadrilogia che ho in mente. Dopo ‘la metà del cielo’, il prossimo sarà sul piccolo mondo antico degli anni ’60, quella campagna onirica e vera. Un mondo semplice, con una sua umanità, pur nella gerarchia, dove nessuno era mai solo, c’era il vincolo comunitario, nel bene e nel male. Il vero contrario di oggi”.
Questo vale anche per la maratona che correva suo padre?
“La maratona era diversa. Negli anni ’70 era un rito collettivo. Oggi è un’attività individualistica e autistica. È cambiata la società e sono cambiate anche le dinamiche dello sport. Allora era tutto molto più popolare. Ho fatto delle ricerche, mio padre aveva fatto decine di volte la cento chilometri del Passatore. C’era gente che si perdeva e molti non arrivavano, persone velleitarie senza preparazione. Poi ne ha fatte tante in Europa. Indimenticabile la 24 ore di Milano, poi la 48 ore che ha ripetuto in Francia in uno stadio allagato, con scatto finale. Era diventato il beniamino dei francesi. E queste storie le ho ricostruite anche grazie a delle interviste, ho usato le tecniche del reportage dentro il romanzo: ho moltiplicato i punti di vista”.
Anche perché la memoria nel tempo inventa.
“So che certe cose sono accadute, ma non so se tutte sono andate così. Chi non vive a Fermo e lo legge da un’altra parte può pensare a un romanzo di finzione, ma mio padre era davvero quello che racconto”.
Tante presentazioni, sta piacendo il libro in giro per l’Italia?
“Devo dire che va meglio dei miei soliti. È un libro sul padre e molti si riconoscono. I rapporti parentali non sono mai facili, anche i migliori si portano dietro delle difficoltà relazionali. E chi lo legge in alcuni passaggi ci si ritrova. È uscito da 50 giorni, ha avuto buona stampa, le presentazioni piacciono”. E' arrivato il treno, il trolley riparte.